martedì 5 dicembre 2006

The Books Live



Il concerto si apre con That right ain't a shit, da The lemon of Pink (2003, Tomlab), il disco che tuttora viene più osannato dalla critica. La critica ha fatto la fortuna di The Books. Conosciuti dai più come gruppo newyorkese emerso nell'ondata di recupero di musica folk attualizzata nelle più diverse salse, si sono fatti immediatamante notare grazie appunto all'esaltazione della critica. Questo apprezzamento è dovuto principalmente all'atteggiamento dissacratorio e innovativo del duo verso la tradizionale composizione della canzone pop: si nota infatti una forte dose di inserzioni elettroniche, suoni e registrazioni incollati all'interno del brano, che rimane comunque, al di là di queste operazioni, nella forma e nella durata della classica canzone pop. Queste registrazioni, insieme alla componente acustica di chitarra (molto ritmata, ma presente anche con freseggi e fughe di ispirazioni quasi barocche; Nick Zammuto) e violoncello (suonata con maestria e suggestione da Paul de Jong), danno come risultato quel collage finale che è diventato lo stile di The Books, rimasto nella sostanza abbastanza simile in tutti e tre gli album finora pubblicati. Ciò che stupisce è appunto questa apparente contraddizione fra il volere smontare, dilatare e quant'altro si possa fare con la forma canzone, e d’altra parte conservare la melodia e armonia caratteristica della stessa, creando così un equilibrio in tensione, percepibile attualmente come marchio di Books. L'effetto è inmediatamente divertente, ironico in quasi tutti i casi, ma non mancano atmosfere più dilatate, decomposte e frammentate, che raggiungono dimensioni più intime e riflessive.
Durante il concerto si scopre che questi elementi importati all'interno della canzone sembrano provenire per la maggior parte da emissioni televisive, svariati home-movies (simpatico e intimo quello regalato con “... my brother Mikey...”, su Mikey bass), data la stretta correlazione di immagini e suono approntata per lo spettacolo dalla band. Le due componenti audio-video rimangono centrali nella loro simbiosi per tutto il concerto, sia attraverso la proiezione delle parole del testo della canzone (Smell like contest), o con le sequenze in loop di oggetti, animali e uomini (take time), e perché no di mormoni di inizio secolo che si tolgono il cappello (“...hat off to you...”).
Il concerto si divide approssimativamente in due parti, la prima più fedele alle versioni disco e presa soprattutto da The lemon of pink (oltre ai brani già citati, Tokio, A true story of a story of true love), la seconda invece con brani nuovi e, per concludere, una bellissima versione riarrangiata di Cello song di Nick Drake, sempre con abbinamento visuale.
L'impressione alla fine dell'esibizione è che The Books, pur avendo innovato poco nella propria espressione musicale nel raggio di questi tre album, stiano comunque proponendo una delle soluzioni più innovative nella musica acustica, spingendo sempre più in là il limite del genere e allontanandosi dalla vague folk-blues ora così diffusa (se mai avessero contemplato di operare una scelta simile, cosa non verificabile). Al contempo, e più in generale, sempre partendo dalla forma della canzone come base per sperimentazioni e distorsioni melodiche, i due raggiungono un suono che caratterizza la percezione attuale in modo sincero e diretto, fedele nella rappresentazione del sentire odierno.

Marco Scipioni

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